TANGENTOPOLI, L’IMMONDO RETAGGIO DI UNA STAGIONE DI SCEMPI
Il livore ultracorporativo della magistratura
Quella triste stagione che prese il nome di Tangentopoli, fu il drammatico effetto degli squilibri il cui primo motore fu la magistratura. In essa talune toghe con argomentazioni elitarie e solo apparentemente funzionali alla corretta amministrazione della giustizia, avevano reagito con livore ultracorporativo anche alle vaghe ipotesi di riforma dell’ordine giudiziario. L’atteggiamento dei togati era squallidamente da ayatollah: difendevano privilegi, poteri di supervisione, facoltà di scatenare il terrore giudiziario quando lo desideravano ma, al contrario che a Teheran, non avrebbero potuto né sarebbero stato in grado di assumere ruoli di governo. La loro azione produceva solo disgregazione e lutti. La loro pervicace azione era sommovimento senza politica con effetti tanto più devastanti quanto più si realizzava in un quadro politico becero e dalle infinite contraddizioni. Le azioni della magistratura rappresentarono una realtà sciagurata il cui accanimento lasciato a consumarsi senza freni portò alla disarticolazione di ogni e qualsiasi possibilità di difesa. Il caso più doloroso e sconvolgente, riguardò un personaggio televisivo, noto al gran pubblico e amato per la correttezza dei suoi modi, per l’eleganza del suo linguaggio, per la sua indiscussa onestà intellettiva. Ma il 17 giugno del 1983 Enzo Tortora fu arrestato e con le manette ai polsi fu consegnato alla libidine dei fotoreporter. L’accusa di collusione con la camorra era infamante ma basata su false confessioni di alcuni pentiti. Iniziò così un calvario che durò fino al 17 giugno del 1987, quando Tortora fu definitivamente e completamente scagionato. L’uomo ne uscì come v’era entrato. Limpido. Ma lo spirito e soprattutto il fisico furono definitivamente distrutti. Un tumore polmonare lo condurrà alla tomba meno di un anno dalla assoluzione definitiva. Per quel calvario e quella morte, nessuna azione penale, né alcun procedimento disciplinare fu mai promosso a carico dei pubblici ministeri napoletani, i quali immondi impuniti proseguiranno le proprie carriere. Qualcuno scosso dalla immane sofferenza di un uomo giusto, paragonò l’Italia alla nefasta Repubblica di Weimar, dominata da anarchie politiche, etiche e anche sessuali. A fronte di tanto marasma le toghe italiane, forti del potere di interdizione, seppure poco istituzionali e molto pragmatiche, furono allora avvertite come unica forma di protezione di libertà fondamentali da squilibri oligarchici ed elitari.
Il referendum sulla responsabilità civile dei giudici
Contro tale ingordo potere di interdizione, contro i suoi effetti devastanti che avevano distrutto vite e annientato la credibilità della istituzione, i Radicali di Pannella, raccolsero le firme per un referendum riguardante i giudici e la magistratura. Così l’8 novembre del 1987 gli italiani furono chiamati ad esprimersi su due aspetti della crisi della giustizia: la responsabilità civile dei giudici e l’abolizione della commissione inquirente per i reati dei ministri. Di fronte a insensibilità politiche e a resistenze corporative, quei referendum rappresentavano un’occasione per riaffermare fondamentali principi dello stato di diritto, abolire anacronistici privilegi e irresponsabilità e rivendicare improrogabili riforme. Apparve non più accettabile che ministri responsabili di gravi reati non fossero perseguibili. Apparve non più accettabile che i magistrati che per colpa grave avessero danneggiato un cittadino non fossero chiamati a risponderne dinnanzi ad un loro collega. Introducendo la responsabilità civile dei magistrati non si intendevano intaccare ma riaffermare la loro autonomia e indipendenza. Abrogando i poteri istruttori della commissione inquirente per i reati dei ministri si sarebbero eliminate inammissibili impunità. La vittoria del SI fu invece l’occasione per una reazione della magistratura milanese, che grazie all’opera di un pool di magistrati dalle “Mani pulite” diede avvio alla stagione di Tangentopoli.
L'orientamento politico della indagine giudiziaria
Con Tangentopoli le indagini della magistratura divennero improvvisamente indagini politicamente orientate, con cui magistrati d’assalto cercavano una riscossa dopo la vittoria del SI al referendum. Con esse intesero invadere il campo della politica, diventare famosi e dettare nuove regole di comportamento, fondare partiti, atteggiarsi a procuratori in crociata, esprimere sulla ribalta nazionale una cultura della giurisdizione ideologicamente corretta. Con Tangentopoli la giustizia fu politicizzata, ma quello che accadde superò di gran lunga l’uso politico che di essa si fece. La politica era certamente e anormalmente corrotta. La caccia a risorse finanziarie da parte dei partiti si era trasformata in una pratica in nero assai emancipata e tecnicamente evoluta. La pletora dei finanziatori aveva preso la mano ai capi dei partiti, generando abitudini pessime, ma con le quali il funzionamento dialettico dei partiti veniva garantito, anche trasgredendo. Trasgressione che aveva perfino qualcosa di eroico, quasi testimonianza di riservatezza, di incorruttibilità personale, di dedizione alla causa, di radicalità dell’amore per la vita di militante nel partito. Ma quella Repubblica democraticamente corrotta, con Tangentopoli lasciò il posto a un falso paese della virtù, a un luogo di oppressione culturale, di pulsioni etiche ossessive, di scemenze punitive sempre più diffuse che alla fine divennero una specie di falso senso comune. Il paese divenne ridicolo, malato di falsa vocazione alla virtù; si smarrirono il gusto della vita pubblica, l’idea e la pratica di un esercizio efficace e solenne del potere. E i risultati furono nefasti. Vi fu più anticorruzione retorica, vi furono dosi sempre più massicce di discorsi sulla casta politica alterati e ubriachi, vi fu la dissolvenza della condizione democratica in un nuovo regime culturale. Il quale anche se utile nell’emergenza, non poteva essere la sanzione della vittoria finale di una ideologia giurisdizionalista, che assegnava alla Magistratura priorità e prerogative del Parlamento. A tale perverso disegno contribuirono non solo gli organismi giudiziari, ma anche imprenditori come Carlo De Benedetti e Cesare Romiti, e mezzi di comunicazione come la Stampa, la Repubblica, il Manifesto e l’Unità di Walter Veltroni. I discorsi sulla corruzione furono automatici, algidi, apparentemente persuasivi. Tutti quanti si tennero per mano in una lotta millantata come lotta alla corruzione: il magistrato, il funzionario della Corte dei conti, il giornalista moraleggiante, i tribuni in malafede del programma di restaurazione della legalità. Tutta gente che forniva non strumenti per capire la varietà del mondo ma mezzi per criminalizzarla. Una varietà non sempre limpida ma pur sempre presente nella verità delle vite di secoli di umanità.
Gli immondi sostenitori di Tangentopoli
La caccia al ladro divenne il principio primo, che sostituì il principio delle riforme, della costruzione di un regime fiscale da paese civile, di una nuova organizzazione del lavoro, di un liberismo correttamente concorrenziale, di una cultura che desse pregnanza di letteratura alle storie che parlano e incantano. Demolire, distruggere, umiliare, fino all’orgia delle manette facili, fu l’obbiettivo da raggiungere. In tale scempio orgiastico si dimenticò di perseguire tutto quello che rende grandi e credibili i paesi in cui i magistrati inquisiscono e incarcerano delinquenti, paesi nei quali si discute e ci si scontra sulla ampiezza della presenza dello stato nella vita libera dei cittadini, paesi nei quali lo standard etico più elevato non è il privilegio di una casta impunemente autonoma ma il senso alto e nobile delle istituzioni. Nessuno era autorizzato a fare dei criteri di pubblica moralità una base generale per un programma politico. Eppure in Italia avvenne che un pool di magistrati politicizzati, dichiaratamente di sinistra quale era Magistratura Democratica fece della questione morale la questione con cui con bisturi molto accorto distrussero alcuni partiti, lasciando intatti altri e i loro sostenitori industriali. Così mentre il Partito Socialista, la parte destra della DC, Arnaldo Forlani, Cirino Pomicino, Calogero Mannino, e rispettivi sostenitori quali Gabriele Cagliari l'ex-presidente dell'ENI, Raul Gardini presidente della Montedison furono annientati, Ciriaco De Mita della sinistra democristiana, lugubre esempio di sperpero pubblico, il Partito Comunista e suoi immondi sostenitori imprenditoriali della genia di Carlo De Benedetti, di Cesare Romita, delle Coop Rosse, furono ritenuti non colpevoli e rimasero impuniti. Cagliari si suicidò in carcere. Tre giorni dopo si suicidò con un colpo di pistola anche Gardini. Gardini aveva saputo dal suo avvocato che stava per essere coinvolto nelle indagini di Mani pulite sulla tangente Enimont e atterrito dalle forme di detenzione già sperimentate da altri per presunte colpe anche meno gravi, ebbe la dignità di preferire la morte al disonore. In Italia con Tangentopoli l’unica questione meritevole di attenzione e che occorreva risolvere fu il ladrocinio dei partiti per potersi finanziare. Le inchieste di Milano sulla corruzione testimoniarono la resa generale dell’intellighenzia italiana notoriamente di inclinazione comunista che le accolse e le coccolò per ignobili interessi di bottega. La distruzione non elettorale ma giudiziaria degli avversari avrebbe lasciato libera la strada di accesso al potere, con una spensierata, gioiosa macchina da guerra, che avrebbe rigenerato la politica e reso salubre il paese. Fu invece uno spettacolo avvilente e limaccioso che lurido del sangue di innocenti di cui si tinse, lasciò come vera e unica eredità l’immondo e vergognoso retaggio di una stagione di scempi.