La Destra: dal totalitarismo fascista alla democrazia liberale
Destra e Sinistra sono due termini nati con la Rivoluzione Francese, quando nelle prime riunioni del parlamento a sinistra sedevano gli esponenti della corrente più rivoluzionaria e a destra i filo monarchici. E per allora non ebbero altro significato. Ma nel Novecento con la Rivoluzione Russa e la Seconda Guerra Mondiale quegli stessi termini individuarono il capitalismo americano e il comunismo sovietico, i due pilastri dell’unico scenario realmente rispondente al modello di democrazia liberale, il bipolarismo. Un bipolarismo che veniva affermandosi in diversi paesi occidentali, ma non in Italia.
Dal dopoguerra fino alla caduta del Muro di Berlino, Destra e Sinistra ebbero significati chiari e definiti. Parlare della Destra significava intendere meritocrazia, conservatorismo, riconoscimento della uguaglianza nei diritti ma non nelle attitudini, pragmatismo. Parlare di Sinistra significava intendere rivoluzione, statalismo, lotta di classe. Ma in Italia nell’immediato dopoguerra, dopo la catastrofe della destra fascista, un partito oscurato dalle atroci vicende belliche tornava all’auge dei primi anni del ‘900. Il Partito Popolare che aveva avuto quali riferimenti le encicliche sociali della chiesa, riconoscendo l'importanza dei valori solidaristici cristiani nella storia dell'Europa e rispettando qualunque credo religioso che accomunasse gli uomini nella loro ricerca di spiritualità, riportava alla ribalta dell’azione politica l’intero mondo cattolico. Con la fine ingloriosa del fascismo quale forma degenere della Destra, il bipolarismo italiano fu non tra Destra e Sinistra, ma tra Sinistra e Centro. Fu a misura delle loro ideologie, delle loro visioni della storia e della dignità dell’uomo che fu redatta la Costituzione del 1948. I reduci della disciolta Repubblica di Salò furono relegati in un movimento, il Movimento Sociale Italiano (MSI), una sorta di camera di ibernazione in cui la Destra pur nelle alterne vicende interne resterà relegata e rinnegata per oltre 40 anni. La storia della Destra in Italia dalla fine della guerra alla fine dell’impero sovietico, è tutta raccolta in quell’arido processo di ibernazione, nel quale i dirigenti collocarono il Movimento nella orgogliosa presunzione di preservare la purezza di una ideologia, che la Storia aveva invece vistosamente rigettata. Ma la caduta del Muro di Berlino e la fine del bipolarismo mondiale ebbero tra gli immensi effetti anche quello di una certa contaminazione di valori tra Destra e Sinistra “tradizionali” portando la Destra ad accettare una seppur minima partecipazione dello Stato nell’organizzazione economica del Paese, e la Sinistra ad accettare un moderato capitalismo tra i fattori necessari e determinanti dello sviluppo. Furono tali contaminazioni alla base di una riflessione efficacemente autocritica dei dirigenti del MSI dalla quale scaturirà il MSI - Alleanza Nazionale, una nuova formazione la quale rappresentò il grande portone da cui uscirono i nostalgici della ideologia fascista ed entrarono nuove forze liberali, repubblicane e cattoliche. Non toccata dalle nefaste vicende di Tangentopoli la Destra poteva presentarsi all’elettorato con maggior credibilità e più intensa forza di aggregazione. Ma nessuno seppe cogliere tale sua positiva evoluzione, anche dopi i brillanti risultati ottenuti nelle amministrative del novembre 1993. Solo un uomo, un non politico, un estraneo al gioco delle parti dei partiti, colse le potenzialità di tale rinnovamento: Silvio Berlusconi. Non aveva ancora deciso di entrare in politica. Ma quella affermazione della nuova formazione della Destra, lontana dal rigore massimalistico della Sinistra e incontaminata dalla vergogna del Centro, ne accelerò il processo.
Le motivazioni dell’entrata in politica di Berlusconi erano chiare e riconosciute. L’uomo non nascose mai di volersi anche difendere da un assedio che prometteva male per il suo business. Erano stati convocati infatti referendum popolari per chiudere le sue televisioni commerciali negando le interruzioni pubblicitarie durante i film. Ma gli italiani avevano votato contro i suoi nemici e scelto lui. Quei referendum non erano solo affari privati, erano un capitolo dell’esperienza estetica, etica ed economica della comunità civile. Un pezzo di storia disegnata dalla intraprendenza di un geniale outsider a fronte di un establishment pigro, esclusivo e blasonato. L’uomo per altro aveva un ego ipertrofico. Il pensiero e il prevedere di non appartenersi più, di essere di tutti e di nessuno, di essere odiato e amato da tutti, lo illanguidivano. La coscienza di essere elemento necessario alla vita altrui gli dava una specie di ebbrezza. Era convinto che a lui spettasse l’esercizio dell’arte delle arti, la più difficile ma più esaltante delle arti, il plasmare l’uomo, la materia più viva, più labile e delicata e con l’uomo forgiare una società interamente rinnovata. Sognava un nuovo miracolo italiano, un mutamento radicale del sistema politico globale: la forma di governo, la fisionomia dei partiti, il rapporto tra cittadini e istituzioni, la separazione tra vita pubblica e vita privata. Un mutamento che follemente si estendeva fino alla antropologia dell’italiano sì da farlo più ottimista, più competitivo, più internazionale, sensibile e partecipe a una nuova forma di patriottismo. Il 1993, l’anno che stava per terminare era stato un anno pieno di terrore e di miseria per chi amando la politica, partecipava e si batteva. Craxi aveva infuocato la resistenza del ceto politico repubblicano sotto accusa. Il Centro democristiano preda di un fatale senso di colpa evidenziava i suoi storici vizi di codardia, del tutti contro tutti, mentre le inchieste si inanellavano l’una con l’altra. Imperversavano arresti, confessioni, carcere, suicidi. Un mondo sconvolto dalla temeraria vicenda di Tangentopoli cercava al suo interno una qualche uscita sicura. L’alta borghesia dell’industria e della finanza, i terribili mostri dei partiti, tutti congiuravano contro chi nell’attesa del grande evento elettorale del 1994 avesse sovvertito quell’ordine caotico che avevano creato. Berlusconi, amico di Craxi nei sollazzi ma non nel partito, sentì ma non diede ascolto a quelle voci, impegnato a identificare il momento più idoneo per il suo fatale messaggio. Quel celebre messaggio del gennaio del 1994, col quale si gettò tra le braccia del “paese che amo”, e lo rapì. L’incipit fu infatti da antologia: “L’Italia è il paese che amo. Qui ho le mie radici, le mie speranze, i miei orizzonti. Qui ho imparato, da mio padre e dalla vita, il mio mestiere di imprenditore. Qui ho appreso la passione per la libertà”. Berlusconi annunciò le dimissioni dalle cariche operative nelle sue aziende, definì il programma del nuovo movimento “liberale in politica, liberista in economia”. Denunciò il rischio che il paese finisse nelle mani dei comunisti e dei loro amici, “uomini legati a doppio filo a un passato politicamente ed economicamente fallimentare”. Illustrò l’inattitudine della vecchia classe politica, implosa sotto il peso del debito pubblico e della corruzione, ma si astenne da ogni rilievo alla azione della magistratura.
Si richiamò ai principi fondanti delle democrazie liberali occidentali, libertà, individuo, mercato, famiglia, e fece esplicito appello al mondo cattolico. Denunciò l’odio di classe ed esaltò la solidarietà, l’impegno sul lavoro, la tolleranza e il rispetto per la vita e per gli altri. Promise agli italiani “più sicurezza, più ordine e più efficienza”. Concluse invocando un grande sogno: “Quello di un’Italia più giusta, più generosa verso chi ha bisogno, più prospera e serena, più moderna ed efficiente, protagonista in Europa e nel mondo”.
Scese in politica e cambiò tutto. Al partito sostituì una persona e una squadra, Forza Italia, cambiò il linguaggio politico liberandolo dal suo involucro di tutti i peggiori arcaismi. Scese e fu subito vittoria. Fu favorito dal miserrimo stato in cui versava l’Italia, governata da una giustizia sommaria, umiliata dalla codardia della politica, sottoposta alla riscrittura della storia costituzionale dei partiti a opera di una magistratura onnivora, infangata dai tanti loschi patti di sindacato finanziari e industriali con cui venivano perseguiti scopi falsamente riferiti a “questioni morali”, resa impotente dalla scellerata onnipotenza dei sindacati che nei 50 anni precedenti avevano dato poco e avuto tutto, dallo Statuto dei Lavoratori alla concertazione, subdola forma di co-decisione e nei fatti diritto di veto. Berlusconi, candido ma con denti da pescecane, iniziò così la sua parabola politica, la quale percorsa da vinto o da vincitore si rivelerà comunque dolorosamente sublime.
La Destra che volle non era un movimento di reazione anti bolscevica, dotato di un programma di negazione e opposizione limitato e sterile, ma un movimento che libero da ogni vincolo ideologico, attento alle continue mutazioni dell’uomo nelle sue relazioni col mondo, in ascolto comunque delle esigenze emergenti, lontano da ogni tentazione autarchica, si impegnava a realizzare nella nazione una comunità legata da idealità condivise, piuttosto che mera associazione di persone con interessi comuni. La Destra doveva avere un'idea educativa umanistica contrapposta alla educazione di tipo materialista; doveva perseguire un modello di società fondata sui valori di solidarietà comunitaria, di impegno responsabile, lontana dall’assemblearismo, dalla assistenza deresponsabilizzante che umilia ed emargina. La Destra doveva promuovere un'equa ripartizione della ricchezza non attraverso una improduttiva e discriminante redistribuzione della raccolta fiscale, ma attraverso l’azionariato operaio, la cogestione dell’impresa, fino anche alla socializzazione dei mezzi di produzione. Una socializzazione finalizzata alla correzione del liberismo inumano e iniquo, in favore delle classi sociali più disagiate. E per quanto riguardava il regime fiscale, esso avrebbe dovuto privilegiare la produzione e il lavoro e non i consumi, grazie a una minore tassazione diretta e una maggiore tassazione indiretta. Riconoscendo nelle autonomie locali la prima e più importante forma organizzata della comunità, si era alleato con la Lega di Umberto Bossi. In ambito europeo infine fu a favore di un'Europa delle nazioni unita pur nelle sue differenze storiche, razziali, culturali e sociali, ma senza predomini di nessuno su nessuna nazione.
Così grazie alla immaginifica creatività di Berlusconi, giungeva al termine l’itinerario della Destra dallo scellerato totalitarismo fascista alla democrazia liberale del bipolarismo. Con la sua discesa in campo si realizzava infatti il bipolarismo, prendeva forma anche in Italia quella forma di organizzazione dello Stato che forte delle positive esperienze anglosassoni si era ormai affermata nei diversi paesi europei. Ma non fu solo questo il merito, seppure fu il maggiore. Altri meriti apparvero allora notevoli: l’essere riuscito a evitare l’avvento al potere del PDS e dei comunisti, l’essere stato in grado di mettere assieme in una medesima coalizione movimenti antitetici per storia e vocazione politica quali la Lega e Alleanza nazionale. La sua idea inoltre di ottenere dagli elettori l’indicazione del capo del governo con la scritta del candidato sulla scheda elettorale, era un contributo fondamentale alla costruzione di una democrazia fondata su di una autentica sovranità popolare. I tre poteri dello Stato -legislativo, esecutivo e giudiziario- che falsamente la Costituzione a essa attribuiva, erano stati esercitati in modo assolutamente improprio. Eletto direttamente dal popolo era stato solo il Parlamento, ma mai il capo del potere esecutivo, mai il capo del potere giudiziario. Con l’indicazione del capo dell’esecutivo veniva a colmarsi una lacuna costituzionale che aveva generato quel desolante pellegrinaggio da un governo pentapartito a uno tripartito, da un governo balneare a uno di transizione. Triste spettacolo e amara vicenda della 1° Repubblica, la quale nella costanza della sua instabilità di orientamenti politici e di decisioni sugli infiniti problemi del Paese, lascerà un cumulo di macerie sulle quali anche l’ipertrofia e le capacità imprenditoriali di Berlusconi falliranno miseramente.
La sua azione di governo fu infatti impacciata, improduttiva, irresponsabile. La sua insaziabile sete di denaro, potere e sesso, la dissennata politica fatta di insulse promesse non mantenute, di programmi non attuati, di riforme non fatte, di improbabili difese del proprio operato, l’irrisione scandita con fermezza e continuità dalla stampa estera sulle sue peccaminose relazioni con minorenni, lo resero inviso fino a farlo ritenere l’incarnazione demoniaca del male assoluto. Eppure un tale detrito della umana specie, un refuso della società civile, sottoposto a elezioni ed elezioni, a fiducie e fiducie, vinceva le elezioni e otteneva fiducia. Di fronte a un tale uragano l’opposizione della Sinistra non fece altro che prorogare la sua infanzia, accompagnare lo sparpagliato ondeggiare dei movimenti di protesta, continuare ad avere della politica una concezione faziosa, sottoprodotto di una legalità brandita come bastone per delegittimare il nemico. Invece di proporsi come guida nuova e ispirata di un grande paese, quale partito politico serio e autonomo da ogni condizionamento, la Sinistra inseguiva slogan grotteschi, ideologie cupe, guerriglie verbali cariche di violenza e di spazzatura ad personam, facendo di ogni piazza un querulo salottino televisivo e di ogni salottino televisivo una piazza querulamente litigiosa.
Tuttavia sarà il 2011 l’anno in cui tutti gli errori legati alla sfera privata di Berlusconi, al suo eterno contenzioso con la magistratura si riveleranno fatali, e insormontabili le difficoltà legate alla devastante crisi della intera economia europea.
Nella sfera personale determinanti furono soprattutto gli sviluppi delle indagini sul caso Ruby. Berlusconi risultò ufficialmente indagato per concussione e prostituzione minorile. Sui giornali comparvero notizie e inchieste sempre più dettagliate e morbose, che rappresentavano la sua Villa di Arcore come il girone infernale dei lussuriosi. Fasti, feste, prostituzione e istigazioni alla prostituzione, rivoli di denaro che fluivano apertamente dalle tasche del principe a quelle delle compiacenti signorine, tutto era descritto con insolita e ghiotta dovizia di dettagli. Di fronte a tanto postribolo il Pd nella illibatezza della sua casta annunciò la raccolta di dieci milioni di firme per chiedere le dimissioni di Berlusconi. Ne raccoglierà e conterà con gran orgoglio e fracasso, solo cinque milioni. Ma saranno tante. Anche le gerarchie ecclesiastiche mostreranno il loro pudico imbarazzo. Se l’intonso Tarcisio Bertone, segretario di Stato Vaticano, si limiterà a chiedere “moralità e legalità per chi ha responsabilità pubbliche”, Angelo Bagnasco, presidente della Cei, con insolita solennità e invitto convincimento affermerà che “il paese è sgomento, c’è disagio morale”. A tanto marasma giudiziario personale, si aggiungeranno le clamorose vicende giudiziarie di uomini del Pdl e persone legate al magico girone del Cavaliere. Berlusconi con improvvida cecità cercò di attutire le intemperie annunciando il varo di una riforma costituzionale della giustizia, a suo dire, epocale. Una riforma che prevedendo tutti i suoi storici cavalli di battaglia in materia giudiziaria, apparve velleitaria e ridicola. Ai temi consueti della separazione delle carriere, della responsabilità civile dei magistrati, della revisione dell’obbligatorietà dell’azione penale, si aggiungeva anche la volontà di riformare la Corte costituzionale, in modo da rendere “necessari i due terzi dei componenti per abrogare le leggi”. Le immediate reazioni, le polemiche e manifestazioni di protesta tra le quali per vigore e alto senso delle istituzioni si distinse l’immarcescibile Antonio Ingroia, le doverose paure della ANM, unità corporativa, incestuosa collusione tra magistratura inquirente e magistratura giudicante, che parlò di una “riforma punitiva che mina l’autonomia della giustizia”, spinsero il Cavaliere a rispondere accusando i magistrati di eversione e a sostenere che in Italia dominava una dittatura dei giudici di sinistra. Accuse che seppure forse motivate erano espresse in modi e luoghi del tutto inappropriati. Particolarmente aspra e martellante fu la polemica sulla giustizia durante la campagna elettorale per le amministrative del 2011. Con insolita imprevidenza ma solita impudenza Berlusconi in una delle tante esternazioni definì i giudici di sinistra “una malattia della democrazia”. In pochi giorni, lo scontro si fece bruciante. I processi che lo coinvolgevano e ne impedivano una fluida azione di governo erano tanti e tali da motivare il convincimento che si trattasse di un ignobile accanimento. Con tale convincimento il Cavaliere propose un disegno di legge costituzionale che prevedeva la riforma del potere giudiziario. Un disegno di legge che fu approvato ma che rese ancora più elevata la temperatura dello scontro. Uno scontro micidiale che culminò con la comparsa per le strade di Milano di alcuni manifesti, non firmati, con su scritto “Via le Br dalle procure”. L’accostamento dei terroristi ai magistrati non poteva non provocare e provocò una grandine di polemiche. La stessa maggioranza ne fu scossa e cominciò a dare segni di insofferenza. Ormai sotto la violenza e la continuità dei colpi, la credibilità e le residue forze del governo Berlusconi apparivano gravemente erose. Il Cavaliere se ne rese conto fino a parlare esplicitamente di possibili successori alla guida del centrodestra in una cena con rappresentanti della stampa internazionale. I dettagli resi noti da un articolo del Wall Street Journal indicheranno Angelino Alfano come il suo delfino.
Riguardo agli effetti della crisi economica, l’Italia eterna sofferente di un insostenibile debito pubblico, nel 2011 fu sottoposta a duri attacchi speculativi, che fecero drasticamente diminuire i valori di Borsa e portarono il differenziale tra Btp e Bund tedeschi a 337 punti. Si temette per la tenuta dei conti pubblici e per l’andamento del debito sovrano. Nei primi di agosto il mercato azionario registrò crolli a ripetizione, mentre l’andamento dei titoli di stato indicava una crescente sfiducia nell’Italia da parte degli investitori internazionali. Tutto appariva volgere per il peggio. Ma a illuminare di luce tetra la vicenda economica italiana fu una lettera del 5 agosto 2011, a firma Jean-Claude Trichet presidente e Mario Draghi e governatore della Bce. Nella lettera con tono severamente didattico, si indicavano al governo, le misure urgenti da adottare per affrontare la crisi: privatizzazione dei servizi pubblici locali e liberalizzazione dei servizi professionali, riforma del mercato del lavoro, nuove forme di contrattazione salariale collettiva, drastica riduzione della spesa pubblica, anticipazione di un anno del pareggio di bilancio, controlli finanziari più stretti sulle spese degli enti locali, riduzione degli stipendi pubblici, riforma delle pensioni pubbliche e private. Tutte misure d’urgenza da adottare con decreto legge e da convertire in legge entro settembre. La lettera nella sua forma e nella dovizia di interventi che richiedeva, sanciva il fallimento di tutta la politica economica dei governi che si erano succeduti dal 1994 in poi. Un fallimento in gran parte dovuto a Berlusconi e Tremonti, assai diversi nella diagnosi della crisi e nel proporre le necessarie terapie. Tremonti, perseguiva una linea economica improntata al rigore e al ferreo controllo dei conti pubblici. Berlusconi reso cieco dai ristoranti pieni e dagli aeroporti pullulanti di viaggiatori, non voleva sentir parlare di crisi ma solo di “riforma fiscale”, basata su tre aliquote Irpef e su sole cinque imposte. Una follia che la lettera della Bce spazzò via. Una lettera così perentoria e dettagliata, non poteva essere spontanea ma doveva essere stata ispirata. Non si saprà mai chi l’avesse ispirata. Tremonti sostenne che fosse stato lo stesso Berlusconi a sollecitarla, in modo da scaricare sull’Europa la responsabilità di provvedimenti che il suo governo non avrebbe potuto adottare. Berlusconi invece sostenne che a ispirarla fosse stato Tremonti con lo scopo di metterlo in cattiva luce all’estero. In risposta alle pressanti richieste della Bce, si mise comunque mano a una nuova manovra finanziaria. Una manovra da capogiro nella sua insolita dimensione di 45,5 miliardi, eppure insufficiente a impedire il declassamento del debito pubblico italiano a opera della Standard & Poor’s e di Moody’s. Le divisioni politiche interne al governo, ormai acute e vistosamente evidenti acuivano le tensioni e accrescevano il malessere sociale del paese. Inoppugnabile testimonianza fu una manifestazione a Roma dei cosiddetti “indignati”, durante la quale la violenza degli scontri, la intensità delle devastazioni, il numero dei feriti, provarono la insostenibilità ulteriore di un clima da guerriglia urbana.
A una situazione interna dominata dalle insofferenze interne al PdL e dalla violenza esterna, si aggiungeva il fervore dei burocrati di Bruxelles esigenti nel voler conoscere cosa Berlusconi e il suo governo intendessero fare per fronteggiare l’emergenza. Ma non ebbero successo. Quando in conferenza stampa venne chiesto all’intrepido Sarkozy e alla impavida Merkel quali garanzie avessero ottenuto dal Cavaliere, il primo sghignazzò sarcastico e la seconda sorrise con sufficienza. Gesti inconsulti ma eloquenti nel provare ormai il livello di discredito in cui Berlusconi era ormai tenuto. La risposta del diretto interessato, giunse comunque sotto forma non di provvedimenti adottati ma di lettera d’intenti nella quale si annunciavano misure tra cui l’innalzamento dell’età pensionabile e una maggiore flessibilità del mercato del lavoro. Una lettera poco convincente e che non convinse né i partner europei né soprattutto i mercati: l’asta dei titoli di stato decennali andò deserta, la Borsa di Milano il 1° novembre perse il 6,8 per cento, lo spread schizzò sulla guglia di 497 punti. Ormai accerchiato e solo, senza chiedere un voto di fiducia, Berlusconi decise di dimettersi dopo l’approvazione della legge di stabilità contenente le misure richieste dall’Europa. Sceso da Palazzo Chigi salì al Colle ad annunziare la lieta novella. Una novella così ardentemente attesa, così ottusamente ritenuta risolutiva, che appena fu resa nota provocò dalle parti del Quirinale grida di gioia, garrire di bandiere, gioiosi festeggiamenti. Nei pressi di Palazzo Grazioli una piccola ma variopinta folla di autentici democratici, apostrofò con insulti liberatori e caste bestemmie quello che era stato il Male Assoluto, unico responsabile di tanto disastro. Apparve a tutti che ormai la tragedia era finita e tutto ormai era predisposto per il ritorno allo spirito e al benessere che avevano preceduto quella odiosa discesa in politica di un uomo malato di sessuofobia, maniaco di grandezza, sfacciato nella opulenza ostentata e maledettamente caparbio. Era l’11/11/2011. Pochissime le formalità successive, fino al 16 novembre quando quell’uomo formalmente passò il campanello di presidente del consiglio al neo senatore a vita e nuovo capo dell’esecutivo prof. Mario Monti.
Tutto pareva ormai compiuto. La inconfutabile saggezza di Scalfari, Eco, Camilleri, Travaglio, la pontificia sapienza di Asor Rosa, attribuirono il nefasto ventennio berlusconiano a quella parte del popolo italiano che aveva votato Berlusconi perché non era più un popolo. Era un coacervo di corrotti e di pusillanimi, una plebe di inebetiti e di amorali, un transito dalla consistenza al nulla, una moltitudine di soggetti individuali appiattiti sugli schermi televisivi di proprietà del Capo. Era un coacervo di teste decerebrate da cui erano sempre emerse visioni frammentarie e che, alla fine di quella esperienza, appariva come una superficie marina spianata in una calma mortale dopo una lunga tempesta. Ma come tante volte era occorso, loro si sbagliavano. Alle elezioni politiche del febbraio 2013 quell’uomo rozzo e moralmente sozzo, riuscì a compiere una rimonta elettorale, grazie alla quale gli fu possibile raggiungere il più imprevedibile e radioso dei tanti risultati della sua irripetibile avventura umana: avere un governo presieduto da un uomo di Sinistra per fare una politica di Destra. Con quella apoteosi politica, appena pochi mesi dopo accompagnata dalla sconfitta nella impari lotta con la Magistratura, si avviava a conclusione l’esperienza pubblica di un uomo che con boriosa ingenuità aveva tentato di ergere una barriera contro la violenza di uno stupro della sovranità popolare e la tracimazione fangosa nelle altre istituzioni dello Stato, della Magistratura, Nuova Grande Inquisizione non in nome di Cristo ma in Nome del Popolo Italiano.