LA CRISI DEL ’29: ORIGINE ED EFFETTI
1. Introduzione
Il crollo della borsa di Wall Street e la crisi che ne seguì, indicano il periodo più nefasto della storia economica del ‘900 in tempo di pace. Un periodo durante il quale su scala mondiale tutte le attività economiche si ridussero drasticamente in modo rapido, radicale e pervasivo. Produzione, occupazione, redditi, salari, consumi, investimenti, risparmi, tutto fu violentemente travolto in un crollo che non aveva precedenti. La violenza e la rapidità del quale furono tali che nessun analista fu capace di prevederle e adottare contromisure adatte a contrastare il crollo o a limitarne i danni. Seppure si conoscessero i fattori del processo economico che avevano generato le crisi precedenti, quella iniziata nel ’29 si manifestò in modo così improvviso e così scarsa di segnali premonitori, che qualunque analisi sarebbe stata inidonea a prevenirla. Basti pensare che ancora alla fine dell’estate di quell’anno la borsa di New York attraversava una fase di grande euforia per la massa di ordini di acquisto. Ma giovedì 24 ottobre inaspettatamente essa crollò: milioni di azioni vennero vendute a prezzi nettamente inferiori a quelli di acquisto, in un crescendo di vendite sottocosto che nonostante gli interventi massivi posti tempestivamente in essere dai governi e dai gruppi bancari e finanziari, non incontrò argini fino al martedì 29 ottobre.
2. Le cause storico-politiche della crisi
La crisi esplosa solo alla fine di ottobre del ‘29 aveva in realtà origini nello sconvolgimento prodotto dalla prima Guerra Mondiale nelle relazioni economiche, monetarie e finanziarie tra i diversi stati.
Oltre agli effetti distruttivi delle gravi perdite di vite e di ricchezza, la guerra, la Grande Guerra, aveva causato
1) il collasso politico dell’Impero asburgico, cui seguì la formazione della Jugoslavia, Cecoslovacchia, Ungheria e Polonia,
2) il collasso economico della Germania, cui il trattato di Versailles aveva imposto l’impossibile e ignobile fardello del riconoscimento dei debiti di guerra e del pagamento delle riparazioni.
Ulteriore causa della crisi ma solo perché contestuale alla guerra fu la rivoluzione russa che escluse l’economia sovietica dai liberi traffici mondiali, e favorì la nascita di altri Stati, come la Finlandia e le Repubbliche baltiche.
Inoltre la Grande Guerra provocò la disgregazione degli equilibri economici e dei rapporti commerciali internazionali, e frantumò l’equilibrio monetario raggiunto negli anni che l’avevano preceduta.
Prima della guerra quasi tutte le monete degli Stati occidentali erano state prossime alla loro parità legale, e i loro valori erano stati solidamente ancorati all’oro. Ma durante la guerra per far fronte agli ingenti costi, gli stati in conflitto avevano fatto ricorso in modo massiccio alla emissione di carta moneta. Errore gravido di conseguenze, perché mutò radicalmente le parità di cambio delle loro monete con il dollaro. A soffrirne il maggior danno fu la Gran Bretagna. «Banchiere del mondo» con la sua sterlina, la Gran Bretagna era stata fino alla guerra il pilastro del sistema monetario internazionale.
La fine della guerra lasciò la Gran Bretagna vincitrice ma annientata sul piano produttivo, finanziario e monetario. Al contrario, gli Stati Uniti crebbero economicamente e finanziariamente e divennero in breve il paese che più fece crediti all’Europa. Così mentre a Londra le possibilità di concedere prestiti andarono lentamente perdendo forza e la nazione finì per ridurre le sue riserve auree, si accesero le luci sul mercato finanziario di New York.
La Gran Bretagna nella vanitosa e distruttiva volontà di preservare il prestigio della City, invece di riconoscere e stabilizzare il mutato rapporto di cambio della sterlina col dollaro, adottò una politica deflazionistica che le permise di ripristinare nel 1925 il rapporto con il dollaro alla parità prebellica e il ritorno alla convertibilità aurea. Questa politica deflazionistica ridusse i prezzi come era intenzione, ma fu causa della caduta dei profitti, dell’indebolimento del sistema produttivo, cui seguirono la riduzione della capacità di esportare e l’aumento insostenibile delle importazioni. L'economia britannica precipitò così in un baratro economico e sociale.
Del tutto diversi furono gli effetti della guerra negli Stati Uniti. Salvo limitate eccezioni, gli USA registrarono un boom ininterrotto fino all’ottobre 1929. A stimolare l’economia americana contribuirono:
- l'espansione dell’industria edilizia e del relativo indotto;
- le innovazioni tecnologiche, basate sullo sfruttamento massivo di nuovi prodotti quali l’auto e prodotti collegati: carburanti, pneumatici, acciaio, strade;
- lo sviluppo dell'industria elettrica;
-la razionalizzazione dei processi produttivi, con l’adozione nelle industrie di un’organizzazione scientifica del lavoro, mirante a eliminare i tempi morti e a ridurre al minimo i movimenti inutili (un esempio fu l'adozione della catena di montaggio da parte della Ford).
Il reddito nazionale aumentò e la maggiore disponibilità di capitali fece di essi il paese più prospero. Furono tali abbondanti disponibilità di risorse che consentirono di concedere cospicui prestiti in tutto il mondo. La maggior parte di questi fu tuttavia concessa ai paesi europei, i quali sostituendo le monete esistenti con delle altre coperte da congrue ed effettive garanzie erano riusciti a domare l'iperinflazione. Ristabilite le condizioni di affidabilità e solvibilità, si ritenne di poter tornare alla convertibilità delle monete con l’oro nella forma già sperimentata nel periodo prebellico. Fu questo l’errore degli errori, da cui prese avvio il declino culminato nel crollo del ’29.
Infatti man mano che le diverse monete tornavano alla convertibilità, le economie interessate scoprivano l’immenso vuoto su cui si poggiavano. Come detto quando la Gran Bretagna nel '25 tornò alla parità entrò in crisi. Situazione analoga si verificò in Italia quando nel ’27 la lira si allineò alla sterlina. Eppure dopo questa generale ristrutturazione delle monete europee gli Stati Uniti, avidi di oro, invece di ridurre i prestiti, li intensificarono. Nei soli anni 1925-1929, prestarono circa tre miliardi di dollari, avendone in cambio oro quale garanzia. Così gran parte dell’oro del mondo si andò a concentrare nei forzieri americani, già ampiamente colmi.
In Europa la Germania era stata la maggior beneficiaria dei prestiti americani, grazie ai quali aveva potuto riprendersi rapidamente dal collasso del marco nel dopoguerra. Per fronteggiare le sue esigenze di sviluppo, essa aveva utilizzato molti dei prestiti americani a breve per investimenti a medio e a lungo termine, confidando che con il ritmo e l'intensità dello sviluppo dell'economia statunitense, essi nonsarebbero stati rapidamente ritirati. La Germania insomma riceveva dal governo americano prestiti a basso tasso per reinvestirli in borsa a tassi di rimuneratività assai più elevati. E in quale migliore mercato investire se non a New York? Sempre più capitali prestati dal governo USA, furono attratti dal boom della borsa di New York.
Ma l’aumento delle quotazioni alla borsa di New York non era collegato all’aumento dei dividendi delle azioni e dei profitti delle corrispondenti società, bensì a un puro gioco di speculazioni. Considerando che i prezzi crescevano appariva vantaggioso comprare per rivendere, senza preoccuparsi della bontà dei titoli. L’effetto fu che tra il 1925 e il 1929 il numero dei valori scambiati raddoppiò.
La massiccia speculazione e l’uso bugiardo dei prestiti elargiti, convinsero finalmente gli USA nell’autunno del 1929 a interrompere tale nefasto gioco di borsa e a richiamare drasticamente i capitali prestati. I debitori che avevano investito i prestiti in azioni furono costretti a venderle a prezzi ridotti. L’offerta azionaria crebbe vertiginosamente a fronte di una domanda praticamente inesistente, e fu il crollo. Rapido, impietoso, distruttivo, globale.
3. Effetti della crisi
Le prime conseguenze del crollo della borsa furono la caduta generalizzata dei prezzi e la rapida contrazione del commercio in tutto il mondo La nefasta esperienza delle esportazioni di capitali, indusse gli USA a una politica doganale che apparve punitiva. Le tariffe doganali adottate pochi mesi dopo il crollo, furono ciecamente protezionistiche in quanto avviarono il pericoloso circuito dell’isolazionismo, dell’autarchia, della fine del commercio internazionale. Tutti i Paesi introdussero dazi doganali generando una forma di nazionalismo economico, che fu la causa del crollo della domanda di beni e di servizi cui seguì il crollo della produzione industriale generalizzata.
La crisi avviata dalla borsa via via divenne crisi industriale e commerciale, e finì per investire il sistema bancario. Sia l’industria che l'agricoltura erano pesantemente indebitate con le banche, le quali nel periodo di boom precedente la crisi, avevano ecceduto nei prestiti, confidando non solo in una restituzione regolare, ma anche nel fatto che i risparmiatori li avrebbero accresciuti.
Così invece non fu. Oppresse dalla caduta delle vendite e dei prezzi, moltissime imprese non furono in condizione di pagare i debiti alle scadenze e le banche si trovarono da un lato prive di liquidità a seguito del mancato rientro dei prestiti e dall’altro premute dai loro depositanti che volevano la restituzione delle somme depositate. Condizioni insostenibili che costrinsero molte di esse anche di grandi dimensioni a dichiarare fallimento. Un esempio per tutti: appena un anno dopo il crollo di Wall Street fallì la Bank of the United States in New York city. Una banca, che contando oltre 400.000 depositanti, col dichiarare fallimento impoverì un terzo della popolazione di New York (il padre di Mike Bongiorno, fu a detta del figlio uno di costoro).
Di fronte al disastro l’opinione pubblica statunitense reagì confusa e smarrita, con invocazione del fatalismo, condanna del consumismo, affermazione della moralità contro il lassismo, mentre il mondo economico reagì sollecitando misure miranti a tutelare la moneta quali la riduzione dei consumi privati, tagli drastici alla spesa assistenziale e pubblica.
Ma il presidente repubblicano, Herbert Hoover, non accolse tale sollecitazione. Fermamente si oppose a queste misure miranti a ridurre i prezzi. Avviò invece una politica di spesa in opere pubbliche e fece pressione sugli industriali perché i salari non fossero ridotti e fosse lasciata inalterata la capacità di acquisto dei lavoratori salariati. Ciò che gli industriali non furono nella condizione di fare.
Gli effetti non si fecero attendere. Molte famiglie, senza più assistenza finanziaria e impossibilitate a pagare i mutui fondiari, si videro o espropriare la casa o costrette a trasferirsi in località dove speravano di trovare lavoro. Sommovimento che produsse un altro effetto nefasto: la disoccupazione o la sottoccupazione. Un ulteriore immenso problema che si aggiungeva all’altro problema, quello della salvaguardia del valore della moneta. Apparve possibile risolvere entrambi i problemi mediante politiche miranti alla riduzione della spesa pubblica grazie alla riduzione degli stipendi e all’aumento della tassazione dei redditi. Ma ovunque la politica di contenimento della spesa pubblica si rivelò disastrosa. Fu in questo quadro di desolazione che le elezioni presidenziali negli Stati Uniti del novembre del ’32 portarono alla sconfitta di Hoover e alla vittoria di F. D. Roosevelt.
4. Il 1933: il New Deal, la ripresa
Il 1933 fu l’anno della svolta nella crisi. Sintomi di ripresa si verificarono un po’ dovunque. La produzione industriale registrò valori più alti di quelli dell’anno precedente e l’occupazione iniziò a crescere. Sintomi positivi che incoraggiarono il ritorno alla collaborazione internazionale con una architettura delle regole del commercio simile a quella sperimentata nel periodo prebellico. Ma le esigenze, la domanda dei cittadini, le visioni politiche dello sviluppo dei popoli erano irreversibilmente e radicalmente mutate. Sicché la Conferenza economica e monetaria mondiale di Londra nel giugno 1933, piuttosto che sancire il ritorno alla collaborazione, dovette prendere atto della definitiva frantumazione del mercato mondiale. Scontratasi sul dilemma se fosse più utile e fecondo stabilizzare il cambio delle varie monete, riammetterne la convertibilità con l’oro o rendere più facile meno costoso il credito, la Conferenza si chiuse con la svalutazione del dollaro fermamente voluta da Roosevelt, e della convertibilità con l'oro ostinatamente difesa dalla Francia.
Con la svalutazione del dollaro Roosevelt intendeva favorire una diminuzione dei debiti interni e accrescere il potere d’acquisto dei ceti agricoli, i quali in forza di una maggiore liquidità disponibile avrebbero potuto intensificare gli acquisti di prodotti industriali e quindi contribuire attivamente alla ripresa. Ripristinando la convertibilità con l’oro Francia, Belgio, Italia, Svizzera, Paesi Bassi e Polonia intendevano raggiungere l'equilibrio nel bilancio statale e della bilancia dei pagamenti, attraverso una moneta stabile e solida. Isolata come sempre, la Gran Bretagna sosteneva che assicurare credito abbondante e a basso costo significava favorire una vigorosa ripresa della produzione, della occupazione e arricchire il mercato di nuova offerta.
A Londra non fu trovato alcun accordo. Roosevelt anche di fronte al grave peggioramento delle condizioni del sistema bancario statunitense e alla successione ossessiva di fallimenti, non poté sostenere la politica britannica, del credito a basso costo, né essendo possessore della maggiore quantità di oro, accettare la impostazione della Francia che avrebbe ipotecato il valore dello stesso. Cambiò pertanto radicalmente la politica economica del suo predecessore. Grazie alla notevole svalutazione del dollaro, non contrastò la spesa pubblica ma la stimolò, intraprendendo un vasto programma di grandi opere infrastrutturali e ponendo mano a quello che fu chiamato il New Deal, un complesso di misure volte:
1) a sostenere gli agricoltori attraverso la concessione di sussidi ma sotto strettissimo controllo della produzione,
2) a ridurre lo strapotere dei grandi gruppi finanziari e ricondurre la finanza sotto il controllo della economia.
Con tali misura i sintomi della ripresa con aumento della produzione industriale, degli investimenti e della occupazione si fecero più evidenti e progressivamente si estesero anche agli altri Paesi. Questa fase di ripresa culminò nel 1937, facendo ritenere che si fosse di nuovo di fronte a un boom. Tuttavia, già sul finire di quell'anno, si poterono rilevare qua e là segni indubbi di recessione. La quale non si estese e non si aggravò, perché il mondo aveva imboccato chiaramente la strada del riarmo e della guerra. La quale ineluttabilmente scoppiò nel settembre del ’39.
Se dunque la crisi del ’29 fu l’effetto della Prima Guerra Mondiale, l’incapacità dei governi, l’egoismo dei diversi paesi, la cecità di fronte al baratro cui si andava incontro, resero inevitabile la Seconda Guerra Mondiale. Più devastante, più lunga, più estesa, più atroce, più sconvolgente della Prima.