Il dilemma della Sinistra italiana tra massimalismo e riformismo

 

 Lo stato di folle ebbrezza in cui versa il paese è così grave e così discriminante per ogni futuro della nazione e dell’Unione europea, da imporre ogni sforzo per capirne la ragioni storiche, strutturali e persistenti che lo hanno generato. L’opinione più condivisa è che la matrice di tanto danno siano il dualismo tra massimalismo e riformismo, persistente nella sinistra fino alla sua fine conseguente la caduta del Muro di Berlino. Un dualismo che cessato nell’89 pose la sinistra comunista di fronte alla doppia necessità di non rinnegare il passato per non rinnegarsi, e di inserirsi organicamente in una società che con l’avvento e lo sviluppo del capitalismo aveva relegato ogni ideologia comunista tra i residuati di una cultura ormai in decomposizione. 

La Grande Riforma di Craxi nel ‘79

L’idea della Grande Riforma lanciata da Craxi nel ‘79, fu l’inizio della battaglia più tenace e continua contro l’imperante massimalismo della sinistra, la quale convinta che la sua missione storica fosse la distruzione del sistema capitalistico e l’edificazione del socialismo quale ordine centrato sulla statalizzazione dei mezzi di produzione e sulla pianificazione globale, per ben 80 anni aveva fatto una bandiera della sua avversione ad ogni riforma. Sempre dominata ossessivamente dal mito della rottura rivoluzionaria, tentò di resistere a ogni tentazione riformista e a ogni tentativo di revisione dei principi teorici del marxismo. Di qui la serie di scissioni e di sconfitte che hanno scandito la sua esistenza storica. Di qui la natura negativa dell’opposizione della sinistra massimalista. Di qui la sua incapacità di delineare l’assetto istituzionale della futura società socialista. Di qui la debolezza organica della democrazia italiana, la quale fino all’implosione dell’impero sovietico, non ha mai potuto contare sul sostegno della sinistra irretita nel più bieco, accanito, irriducibile rifiuto di qualsiasi politica che non contemplasse la trasformazione rivoluzionaria della società. Mentre in altri paesi dell’Europa occidentale una sinistra non massimalista e riformista è stata grandemente maggioritaria, in Italia scissa in due grandi famiglie, i riformisti e i massimalisti rivoluzionari, essa è sempre stata minoritaria e sempre perdente. I primi sono stati dei riformisti senza riforme; i secondi dei rivoluzionari senza rivoluzione. L’unico suo approdo apparve quello idealmente apprestato dal socialismo riformista e liberale di Craxi che ebbe ragione ma non fece storia. Craxi seppe riconoscere che la vera “malattia del sangue” del socialismo italiano era il rifiuto sdegnoso di ogni politica che non fosse la fuoriuscita dal sistema occidentale, ovvero quel massimalismo imperante nei partiti e nei sindacati, nelle università e nei mass media, che la contestazione studentesca del 1968 lasciò apparire come lo spirito rivoluzionario definitivamente vincente sullo spirito riformista. Richiamandosi esplicitamente alla eredità revisionista del PSI Craxi osò discutere l’indiscutibile. Contestò apertamente e frontalmente quello che era diventato il “senso comune” di quasi tutta la sinistra italiana, preconizzando che il massimalismo avrebbe portato l’Italia al disastro. Di qui la sua avversione al compromesso storico, a quella visionaria strategia con la quale Enrico Berlinguer intendeva estrarre dal marx-leninismo una nuova versione del comunismo, la cosiddetta “terza via”. Una “terza via” la cui meta era la fuoriuscita dalla logica del capitalismo, per muoversi verso il socialismo sovietico, dove era “universalmente riconosciuto che esisteva un clima morale superiore, mentre le società capitalistiche erano sempre più colpite da un decadimento di idealità e valori etici e da processi sempre più ampi di corruzione e disgregazione”. Ebbene, mentre Berlinguer proponeva come modello da imitare quel mostruoso impasto di dispotismo, miseria, corruzione, irrazionalità economica e imperialismo ideologico che era l’URSS, Craxi tesseva l’elogio del “compromesso socialdemocratico” fra stato e mercato. “La democrazia rappresentativa andava potenziata ma non distrutta; il mercato andava sottoposto al controllo politico ma non cancellato; i processi decisionali andavano decentrati e non accentrati”. L’esperienza leninista aveva provato come leninismo e pluralismo fossero termini antitetici, perché il progetto leninista esigeva la centralizzazione assoluta, la statalizzazione integrale della vita individuale e collettiva. La democrazia (liberale o socialista) presupponeva al contrario l’esistenza di una pluralità di centri di potere in concorrenza fra loro, la cui dialettica avrebbe impedito la costituzione di un potere totalitario e di ogni forma di monopolio. In breve: il pluralismo avrebbe reso impossibile ogni monopolio. Tutto il contrario delle tendenze affermatesi nei sistemi comunisti. In Italia i comunisti pur di fronte all’affermarsi di una società laica e seppure in forma imperfetta progressivamente capitalistica, invece di avviare un coraggioso dibattito sulle ragioni del fallimento della politica di statalizzazione, nelle tesi approvate al XV congresso del Pci (1979), espressero la rituale critica ai partiti socialdemocratici, rei di “non aver portato la società fuori della logica del capitalismo”. Tesi con cui il Pci ribadiva che non intendeva affatto rinunciare al suo legame organico con l’URSS e con tutto ciò che essa simbolizzava e rappresentava anche in termini di fonte vivace di finanziamenti al partito. E lo faceva con il sostegno di una buona parte dell’intellighenzia che amava definirsi progressista, mentre altro non era che radicalmente ostile alla libertà dei moderni e come tale irrimediabilmente reazionaria. 

La Sinistra e la Caduta del Muro di Berlino

Lo slogan “Né con le Brigate rosse, né con lo Stato” provò la sanguinante crisi morale in cui era precipitata la Repubblica, una vertigine ideologica, che rese tristemente evidente come mentre in tutti i paesi della UE si affermavano i principi di un capitalismo sempre più di massa, la Sinistra italiana rimaneva una maligna anomalia che rendeva anomalo il funzionamento e di fatto impediva lo sviluppo della democrazia. Una Sinistra la quale fino al crollo del Muro di Berlino e alla bancarotta planetaria del comunismo, continuò a essere priva di una credibile e rassicurante alternativa di governo continuando il Pci a essere cieco di fronte all’evidenza storica di tanto fallimento, e nella sua cecità ancora fermamente determinato a cercare nel totalitarismo bolscevico la vera democrazia. Da una posizione così apertamente retriva e impreparata al governo del paese, il Pci non si allontanò nemmeno dopo la caduta del Muro di Berlino nel novembre dell’89. Occhetto, segretario in carica, appena tre giorni dopo nel corso di una manifestazione partigiana in un quartiere di Bologna, annunciò il progetto di trasformare radicalmente il partito in una nuova "cosa", che avesse un nuovo nome e una nuova identità. L’annuncio inatteso e soprattutto indefinito nella sostanza, suscitò sgomento e reazioni negative. Ingraiani e cossuttiani la contrastarono aspramente. Ma anche i favorevoli alla svolta furono vistosamente contestati, come Luciano Lama la cui auto sotto la sede in via delle Botteghe Oscure, venne presa a calci dai militanti. Il progetto di Occhetto secondo cui lo scioglimento del Pci avrebbe dovuto dar vita ad un partito unico della Sinistra, con l’apporto di socialisti e socialdemocratici, non giunse a compimento; un risultato che condannerà per decenni ancora la sinistra a una posizione di opposizione. Tale fallimento, benché non impedì la nascita nel febbraio del 1991 del Partito Democratico della Sinistra, pur non volendo traslò all’interno del nuovo partito il dualismo tra massimalismo e riformismo. Una traslazione perniciosa che impedì allo stesso di avere una leadership certa e una identità inoppugnabile. La rinuncia infatti al progetto di instaurare una società comunista attraverso la lotta di classe e la rinuncia al centralismo democratico, che permetteva ufficialmente la nascita di correnti all’interno del partito, furono come due scosse che il monolitico Pci non riuscì ad assorbire. Le correnti che vennero a formarsi segnarono uno spartiacque tra la sinistra di Ingrao torva guardiana della ortodossia comunista, il centro degli eredi di Berlinguer tra cui Occhetto più aperto alla collegialità e ai movimenti di ispirazione socialista, e l’ala migliorista più destrorsa di Napolitano addirittura favorevole alla fedeltà atlantica nella Nato. Tale era il PDS di Occhetto che con la fine dei partiti tradizionali decimati da Tangentopoli pregustava una marcia gioiosa e trionfale verso Palazzo Chigi con le imminenti elezioni del marzo 1994. Molto più attento alle problematiche e divergenze interne che non alle esigenze del paese esterno, il nuovo partito non seppe esprimere né un programma convincente e chiarificatore del perché del superamento del massimalismo, né un leader col carisma necessario ad affrontare una svolta storica così decisiva. Da un lato non ci si voleva allontanare dalla sponda massimalista per evitare la prevedibile emorragia dei vecchi militanti, dall’altra occorreva aprire alle istanze socialiste per acquisire consensi sufficienti a un governo non di coalizione. Le conseguenze furono disastrose. Una campagna elettorale in cui gli stessi esponenti di rilievo parlavano un linguaggio diverso, un quotidiano di Partito quale l’Unità balbettante, la spigolosa presunzione di una superiorità morale sancita dalle risultanze dei processi di Tangentopoli, illusero gli iscritti e i dirigenti del PDS che ormai l’avvento a Palazzo Chigi fosse sicuro e imminente. Errori di metodo nella comunicazione, errori di sostanza nell’allestimento di un credibile programma di governo in bilico tra statalizzazione e capitalismo, l’arroganza scellerata di definire di plastica il maggior partito avversario, Forza Italia, condannarono il nuovo PDS alla ennesima sconfitta alle elezioni del marzo 1994. Non sarà l’ultima, ma certamente la più bruciante. Di fronte alla vittoria schiacciante di Forza Italia nata appena tre mesi prima per ispirazione e sotto la guida di Berlusconi, Occhetto si dimise, e i comunisti non entrati nel PDS si organizzarono prevalentemente nel Movimento di Rifondazione Comunista, in seguito Rifondazione Comunista (PRC), il Partito che fino al 2006 avrà come guida e riferimento ideologico il sindacalista e leader CGIL Fausto Bertinotti.

Rifondazione Comunista e l'esperienza dell'Ulivo

Per quanto marginale sul piano del consenso elettorale, il PRC nella ottusa ortodossia massimalista sarà dannoso ancora una volta alla stessa sinistra che aveva cercato di inserirsi nel gioco di una democrazia non proletaria, di abbandonare la lotta di classe e accettare il capitalismo per riformarlo ma non per distruggerlo. E fu ancora la ostinazione massimalista di Bertinotti la causa della caduta del governo Prodi nel 1998 e la fine dell’esperienza dell’Ulivo. Pur non ignorando l’obbiettivo immediato di vincere una competizione elettorale contro Berlusconi, l’esperienza dell’Ulivo guidata da un ex-DC qual’era Prodi, rappresentava lo sforzo generoso ma poco lungimirante degli ex democristiani di costruire una alleanza organica con la sinistra che aveva mostrato una maggiore flessibilità ideologica e che ripudiando con mano vellutata il suo passato bolscevico, aveva accettato di confluire in una nuova formazione più aperta al capitalismo ormai ampiamente accettato dal Paese. Ma se sul piano strategico l’esperienza appariva promettente, sul piano tattico fu disastrosa. Per vincere con assoluta certezza contro Berlusconi Prodi stipulò un patto di desistenza con Bertinotti. Un patto di brevissimo respiro, privo di grandi idealità e miserrimo nella concezione. Un patto scellerato che poneva nelle mani del massimalismo di Bertinotti il futuro dell’esperienza ulivista. Costituitosi nel 1996 il governo Prodi per l’imperizia e la modestia dell’uomo, e per l’arroganza ideologica del PRC cadde per un sol voto nel 1998. Ancora un disastro della sinistra a causa di una sinistra ancora più a sinistra. Sinistro destino di una formazione politica che mostrava ancora la incapacità di capire il paese e le sue nuove vocazioni, di cogliere i fabbisogni che il consolidarsi del capitalismo comportava, e l’affermarsi rapido e impetuoso nella organizzazione del Paese di fattori ritenuti secondari e che quasi improvvisamente apparvero decisivi. La finanza, le banche, il capitale, l’impresa come fonte di guadagno ma anche di profitto, furono variabili non collocabili nello schematismo tradizionale dei partiti antecedenti il crollo a Berlino, e che esigevano invece una diversa e più adeguata collocazione e rappresentanza negli organismi di governo. L’Ulivo ancora zavorrato dalla componente massimalista seppure mascherata dalla candidatura alla Presidenza del Consiglio di Rutelli, fu incapace di accogliere tale nuovo mondo e nello scontro con Berlusconi nelle elezioni del 2001 perdette ancora vistosamente. Giocò a sfavore la scialba figura di Rutelli, giusto di passaggio nella Margherita nel suo ininterrotto saltellare tra vagoni diversi: proveniva dai Radicali, dai Socialdemocratici, dai Verdi, dai Democratici, e dopo la Margherita avrebbe avuto come destinazione il PD, e poi l’API di cui per degustare una solitaria leadership fu leader nel 2011, giusto il tempo di provarne l’inutilità. Dopo il quinquennio dominato da Berlusconi, nel 2006 si tornò al voto. Per la sinistra il problema restava ancora il medesimo: non perdere il consenso dei comunisti duri e puri e inserirsi definitivamente nel filone del riformismo capitalista. Fu ripetuta la stessa tattica del 1996 con Prodi, il poco rinsavito Professore, candidato premier, il PRC alleato in una coalizione allargata alla componente ex-DC di Mastella, l’UDEUR, che avrebbe scolorato ancor di più il rosso sangue della componente comunista. L’esperimento questa volta denominato Unione, ebbe un successo più platonico che reale. In realtà fu un pareggio con Berlusconi, che solo la nuova legge elettorale, il Porcellum, lasciò apparire come una vittoria alla Camera grazie al premio di maggioranza ma con solo due voti in più al Senato. Con quel risultato l’azione di governo sarebbe stata impossibile, così come fu subito chiaro. Tuttavia il difficile cammino del governo Prodi ebbe quale effetto quello di accelerare il processo unitario dei principali soggetti DS e Margherita verso la nascita del denominato Partito Democratico, nell’ottobre 2007. Alla segreteria fu votato Walter Veltroni, comunista puro sangue, già direttore dell’Unità, tornato alla politica nazionale dopo l’esperienza deludente come sindaco di Roma. Alla presidenza fu eletto l’ispiratore della fusione, Romano Prodi. Nella sua navigata esperienza di politico, Veltroni colse la debolezza di coalizioni come l’Ulivo e come l’Unione, che condizionate dalle visioni delle tante anime, non riuscendo a imboccare nessuna strada che fosse condivisa da tutti, avevano fatto l’unica cosa possibile: restare fermi. Con uno scatto di orgoglio tanto vistoso quanto ipocrita, nel gennaio 2008 Veltroni al Lingotto di Torino affermò con solennità che con lui non ci sarebbero state mai alleanze per formare il governo, mirando a lanciare un partito a “vocazione maggioritaria”. Affermazioni contraddette appena qualche mese più tardi quando alle elezioni dell’aprile 2008 si alleò con il più truce, più insolente e presuntuoso magistrato d’Italia, che forte di una certa notorietà acquisita ai tempi di Tangentopoli si illuse di rinnovare i fasti di quei tempi. La coalizione Veltroni-Di Pietro e tutta la sinistra estrema furono travolte dalla travolgente vittoria di Berlusconi. Molti furono i caduti, tra i quali l’ideologo più puro del massimalismo più spinto, Bertinotti, che dimessosi da ogni incarico uscì dal Parlamento ed entrò nell’infinito silenzio oltre la siepe. L’errore di Veltroni in aggiunta a quello macroscopico dell’alleanza con Di Pietro, fu l’incapacità di spiegare come l’azione di governo che aveva in mente avrebbe potuto essere nello stesso tempo fedele ai principi di un comunismo seppure riformato, con la totale novità di esigenze e tematiche anche eticamente sensibili che il paese esprimeva ormai in modo impellente. Quella penosa campagna elettorale fu la ripetizione ormai logora di visioni dello sviluppo capitalista del Paese, che il Paese non capì e se le capì non le condivise. Mancò infine una visione originale e attraente della politica nei confronti dell’UE, che sotto il dominio della Germania della Merkel, andava perdendo sempre più i connotati di una organizzazione sovranazionale per acquisire quelli di una oligarchia di Paesi. Dopo tale sciagurato risultato lontanissimo dalle sue aspirazioni planetarie, Veltroni dovette dimettersi e sarà di fatto la sua fine politica. Anche Prodi, presidente del partito, si dimise sdegnosamente e a passo lento ma deciso si allontanò anche lui dalla politica cercando altri approdi. Quel disastro delle elezioni del 2008 fu erroneamente ritenuto essere il risultato della insipienza degli attori principali, piuttosto che alla natura della sinistra, alle sue intrinseche debolezze e incongruenze, alle sue difficoltà di conciliare il massimalismo col riformismo. E sui nuovi attori si puntò per un rinnovamento che sarebbe stato salutare se fossero stati prima definiti i contenuti e poi i contenitori. Dopo vicissitudini e recriminazioni interne il PD ebbe una nuova struttura di governo con Gianluigi Bersani segretario e l’angelica pasionaria Rosy Bindi alla Presidenza dell’Assemblea, bugiardamente millantata come presidenza del partito. Due figure che al di là delle proprie individuali capacità, esprimevano chiaramente il tentativo maldestro di fondere in una sola formazione politica, ciò che fondere non si poteva. Bersani era un reduce del PCI, Rosy Bindi della DC. Così il PD iniziò ad avvertire in modo drammatico l’errore originato dalla rapida fusione di due partiti troppo disomogenei, incapaci di amalgamarsi, stretti tra posizioni clericali e laiciste, tra ambientalismo e pro - TAV, tra socialismo e cultura popolare. Il PD non si configurò come partito né socialista, né socialdemocratico, né come partito popolare o cristianodemocratico. Fu semplicemente un partito senza ideologie, alla perenne rincorsa del centro da una parte e dall’altra della inutile nullità di Di Pietro.

Bersani ed Epifani: le ultime figurine di una cultura della sinistra prossima alla rottamazione

In poco più di venti anni la Sinistra era passata dal massimalismo della rivoluzione alla moderazione dell’anti riformismo; dalle lotte operaie per la conquista di un benessere più diffuso, al nulla della negazione del tutto: NO-TAV, NO al nucleare, NO agli Inceneritori, NO ai Rigassificatori, NO alla Riforma della giustizia, NO alla Riforma della Costituzione. Un NO ossessivo cui il Paese ha reagito ancora una volta con un NO al governo della Sinistra, la cui leadership era passata dalle mani di figure della statura di Berlinguer, a quelle di figurine tascabili della dimensione di Bersani ed Epifani.